Forse la dimensione moderna non convince tanto o forse è difficile identificare nelle linee a perpendicolo di Arnaldo Tranti, designer valdostano di Saint Cristophe, qualche somiglianza con la meraviglia e la maestà delle Dolomiti. Tutti concordi nell’affermare che quel reticolo ricorda più i grattacieli di grandi metropoli, che le rocce plasmate nei millenni prima dalle acque degli oceani primordiali, poi dal sole e dal vento.
E se la protesta è popolare e generalizzata, dal Friuli al Trentino, attraverso articoli sul web, commenti caustici su vari blog, non mancano le critiche anche da parte di personaggi pubblici. Così dice uno che di montagne se ne intende, il re degli Ottomila Reinhold Messner: «Devo dire che all’inizio non volevo credere fosse il logo scelto per rappresentare le Dolomiti. Credevo fosse un altro disegno, un simbolo scelto per identificare New York. O comunque una grande città. Ma neppure una grande città qualsiasi. Non potrebbe ad esempio secondo me identificare né Roma, né Londra. Ma solo grandi metropoli moderne.
O quella americana o Tokyo. Perchè mi sembra un simbolo che richiama la capacità dell’uomo di costruire, il logo di qualche cosa di artificiale, umano. Io voglio precisare una cosa: non voglio esprimere un giudizio, né criticare perché quello del grafico non è il mio lavoro. Ma conosco le Dolomiti però, e la sensazione è che un simbolo così abbia potuto crearlo solo uno che di Dolomiti e natura sa ben poco».
Mi dispiace, perchè sono un grande amante delle Dolomiti, sono per me delle montagne uniche al mondo. Con quei colori cangianti a seconda dell’incidenza della luce, quelle forme che le avvicinano, anche se sembra un’eresia, un’opera d’arte. Guardarle è un’emozione, che non emerge certo da questi marchi. Le Dolomiti sono equiparabili a delle sculture». Se è ciò che pensa dei vincitori, si immagini come dovevano essere quelli che hanno perso. «La rovina della pubblicità è il marketing. I loro esperti sono masse di incompetenti che hanno creato dei lavori buoni per dei subumani. Quegli stessi subumani che poi sono chiamati a valutare cos’è l’estetica, cos’è l’arte. E’ molto triste, ma questi sono i risultati. E si vede».