Grande era l’attesa per le parole che avrebbe pronunciato il Dalai Lama, giunto in mattinata nel Palazzo della Provincia di Trento provenendo da Bolzano. Nel suo discorso pubblico, così come nel breve incontro avuto con la stampa trentina assieme al presidente Dellai, il Dalai Lama ha sottolineato innanzitutto la distanza esistente fra terre come il Trentino e l’Alto Adige, che godono di un’autonomia "reale", e che dispongono degli strumenti giuridici per tutelare i propri diritti, e il Tibet.
Il Tibet ha una storia millenaria, una propria cultura, una propria tradizione spirituale. I tibetani hanno sempre avuto una grande fiducia in se stessi, una grande dignità. Siamo gente fiera e orgogliosa. Sul piano culturale, linguistico, della tradizione storica, siamo alla pari dei cinesi, se non più avanti. E comunque, il Buddismo è arrivato in Tibet dall’India, non dalla Cina. La nostra lingua è mutuata dal sanscrito, non dal cinese. Che il Tibet sia cosa diversa dalla Cina lo provano le semplici espressioni verbali che la gente usa per definirci. Io sono definito il Dalai Lama del Tibet, non della Cina. La gente dice ‘buddismo tibetano’, non ‘tibetano-cinese’. Non siamo stati noi ad inventare tutto questo, è la nostra storia, la nostra eredità millenaria. Il comunismo cinese si è rivelato di strette vedute e di limitato pensiero. All’inizio le idee che proponeva erano positive, ma il risultato che noi oggi vediamo è che sei milioni di tibetani sono privi di ogni diritto."
Da dove partire, allora, per cambiare le cose? Per il Dalai Lama dall’informazione libera, dall’abolizione della censura. "Molti cinesi pensano che i tibetani sono degli ingrati. Sono stati presi sotto l’ala protettrice della Cina, e non le sono riconoscenti. Questo avviene perché non dispongono di informazioni corrette. E’ il momento che ci sia finalmente in Cina libertà di informazione. Un miliardo e trecento milioni di cinesi hanno diritto di sapere le cose come stanno. Anche la democrazia è importante, ma qui il discorso si fa più delicato. Non è interesse di nessuno creare il caos con un cambiamento radicale.
Pensiamo sia preferibile un cambiamento graduale. Il problema è che il nostro ‘ospite’, come l’abbiamo definito, non è molto brillante; pensa solo al controllo. Pensa sia sufficiente dare cibo, dare una casa ai tibetani. Ma non è così: abbiamo la nostra civiltà i nostri valori, non ci basta mangiare e dormire Abbiamo una spiritualità che i cinesi non comprendono e che temono."
Che l’autonomia del Tibet possa giovare anche alla Cina, era stato peraltro sottolineato dagli stessi relatori che hanno preceduto il Dalai Lama. Il ragionamento è semplice. La repressione genera inevitabilmente ribellione, mentre un’autonomia vera, un’autonomia che soddisfi le esigenze della minoranza che la richiede, rappresenta una tutela per lo stesso Stato che la concede, nei confronti dei pericoli di una secessione violenta. Esempi come quello della Scozia, del Quebec, ma anche del Trentino e dell’Alto Adige/Sudtirol sono lì a dimostrarlo.
Autonomie siffatte, come sottolineato nel suo intervento dal presidente della Provincia autonoma di Trento Lorenzo Dellai, sanno che in virtù di quanto sono riuscite a conquistare negli anni portano oggi una responsabilità in più nei confronti di popoli come quello tibetano. "Noi trentini – ha detto Dellai – abbiamo sofferto quando eravamo una minoranza italiana in seno all’Impero austroungarico, i sudtirolesi hanno sofferto molto di più quando si sono ritrovati ad essere una minoranza tedesca sotto l’Italia, durante gli anni del fascismo. Nel Secondo dopoguerra abbiamo ottenuto finalmente un’ampia autonomia che oggi si proietta in una più grande dimensione transfrontaliera, a cavallo fra Italia e Austria, in seno all’Europa unita.
Forti di questa consapevolezza, vogliamo dare un contributo concreto alla causa dei popolo tibetano; per questo abbiamo varato quella che ho definito ‘Carta di Trento’, un documento di appoggio all’autonomia del Tibet che nelle prossime settimane chiederemo di sottoscrivere ad altre regioni autonome dell’Europa e del mondo. Perchè siamo convinti che sul piano internazionale non siano solo gli stati a contare, che anche le regioni e le comunità che le abitano possono e devono fare sentire la propria voce."