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L’emergenza Covid posticipa anche la “Grande festa degli ex lavoratori in Libia”: ecco l’Africa del trentino Emilio Bettega

Il raduno dei lavoratori in Libia è stato rinviato al 15 novembre alla Birerria Pedavena. Ad annunciarlo nei giorni scorsi, il presidente del sodalizio Franco Dal Mas. Sono centinaia i lavoratori e tecnici che si sono impegnati in Libia e in tutta l’Africa, nella costruzione di strade, ponti, ospedali e case, cementando il legame tra colleghi in amicizia dopo aver superato molte difficoltà. Abbiamo raccolto la testimonianza di un primierotto che per molti anni ha lavorato in Africa

Emilio Bettega si racconta dopo una vita di lavoro in Africa

 

di Liliana Cerqueni

Primiero (Trento) –L’Africa è mistica, selvaggia, un inferno, un paradiso. E’ quello che vuoi tu, e si presta a tutte le interpretazioni. E’ l’ultimo vestigio di un mondo morto o la culla di una nuova vita luccicante” sosteneva l’inglese Beryl Markham, cresciuta nel continente africano, prima aviatrice che da sola, intraprese la trasvolata dell’Atlantico, dall’Inghilterra all’America, nel 1936. Qualcosa del genere deve aver pensato Emilio Bettega, geometra di 68 anni, di Imer, che di Africa ne sa molto perché l’ha vissuta intensamente in tutti i suoi aspetti. Finiti gli studi e il servizio militare, portate a termine alcune esperienze professionali in Italia e Svizzera, Emilio inizia l’avventura africana: dura e affascinante allo stesso tempo.

Come è iniziata la tua vita in quel continente?

Era il 1987, ero appena sposato, e sono partito per Bosaso in Somalia, come topografo e poi capo cantiere per un grande consorzio di aziende internazionali. Dovevamo costruire una strada, un porto e due ospedali. I due ospedali alla fine rimasero costruzioni abbandonate perché l’organizzazione Medici Senza Frontiere rinunciò a lavorare in quei luoghi a causa dell’altissima pericolosità del momento storico. Era iniziata la rivolta contro il regime di Siad Barre, destinata a durare fino al 1991. C’era bisogno di quegli ospedali perché c’era un tasso vertiginoso di mortalità infantile, malformazioni e mutilazioni, lebbra, elefantiasi, parassitosi. Ho visto occupare quegli spazi abbandonati, da capre, pecore e cammelli, ahimè!

Com’erano le condizioni di lavoro?

Eravamo tra una catena di montagne e il Mar Rosso. Si lavorava dalle 4.30 della mattina fino alle 10 di notte per la costruzione, prima di tutto, del campo base e dei campi avanzati con container per tutti noi, su un’area di 170 km, e io ne ero responsabile. I lavoratori passati di là erano 3500: c’erano connazionali meccanici, autisti, tecnici specializzati. I lavoratori locali di diverse tribù non duravano molto perché se ne andavano frequentemente e c’era un continuo ricambio. Molti sparivano alla prima paga, dopo essersi spesi quasi tutto in khat, la droga dei poveri, un alcaloide in foglie che vengono masticate e danno senso di stordimento, i cui grandi produttori sono Yemen e Etiopia. Il caldo era a volte insopportabile e, a 62° in laboratorio, una volta mi si è fusa la stazione integrale.

Ci sono episodi particolari che ricordi della vita di campo e di quel periodo?

Ricordo un Natale, festa a cui nessuno rinuncia, nemmeno se si è in Africa. Per celebrarlo avevamo addobbato alcuni cespugli correndo qualche rischio, perché alle radici erano pieni di nidi di serpenti piccoli ma velenosissimi, i cilbis, come vengono chiamati là. E poi non potrò mai dimenticare il sequestro mio e della mia squadra da parte dei guerriglieri separatisti, nemici del governo centrale. Poco prima era toccato a un danese addetto a un peschereccio-frigo. Fummo assaliti lontano dal campo, sulle montagne dove crescono incenso e mirra, ed erano armati fino ai denti con armi di diversa provenienza. Eravamo bloccati senza via di scampo, con le mitragliatrici puntate su di noi. Dopo averci fatti girare e arrivare dove volevano, e dopo molte trattative, li convinsi a lasciarci andare (l’intenzione era di uccidere i miei uomini), perché avevo dato dei medicinali al loro capo in qualche occasione. Al ritorno, dovetti scrivere una relazione sull’accaduto alla nostra Ditta e all’Ambasciata della Farnesina.

Quali altre trasferte hai fatto successivamente?

Dopo un periodo a casa, nel 1991 mi è toccata Mogadiscio. Allora la capitale somala aveva solo poco più di un milione di abitanti, era vivace, là si trovava di tutto, era chiamata “giardino d’Africa”, con bouganville fiorite da tutte le parti. Quell’anno ebbe termine il governo di Siad Barre che, ormai anziano, aveva già rimesso le direttive in mano a parenti e funzionari. C’era in atto la guerra civile tra clan e fazioni che lo sostenevano o lo volevano destituire, che durava ormai da anni, ma tutto sommato, all’inizio non si viveva male, anche se dovevamo stare attenti perché la situazione non era ancora fuori controllo e generalizzata. Il caos è scoppiato dopo. L’anno prima era stato ucciso il ricercatore italiano Salvo, tra mille punti interrogativi e verità taciute e due anni prima era stato ucciso anche il vescovo italiano a Mogadiscio, Monsignor Colombo. Avvertivo la tensione, bastava essere una voce scomoda per temere il peggio. Avevamo difficoltà con le linee telefoniche e i costi per una telefonata a casa erano folli. Poi tutto è precipitato e si è visto il vero volto di quella che è diventata una guerra sporca. Un giorno ero alla posta per telefonare a casa e appena uscito, a 50 metri, è saltato in aria l’ufficio postale. Ho visto il posto in cui successivamente Ilaria Alpi e il suo cineoperatore sono stati ammazzati: una zona off-limits in cui era pericoloso recarsi.

Che lavori dovevate fare a Mogadiscio?

Una centrale di pompaggio acqua e i vasconi di raccolta a 40 km dalla città, in zona problematica, e la rete idrica di servizio con 100 km di tubazioni in città; dovevamo prima allestire il campo base, una vera e propria cittadella anche per i familiari dei lavoratori, in mezzo alla boscaglia. Dopo poco tempo abbiamo dovuto piantare tutto e scappare. Io sono fuggito da Mogadiscio con l’ultimo aereo utile disponibile, un airbus belga, dopo essermi nascosto con altri per 15 giorni, mangiando bucce e altra robaccia. Arrivato a Roma con il solo passaporto, senza i miei effetti personali, ho baciato il suolo patrio. A Venezia mia moglie che aspettava in aeroporto non mi ha neanche riconosciuto tanto ero provato e dimagrito.

E poi sei ripartito per la Guinea Bissau, ultimo stato a rendersi indipendente dai portoghesi…

Là facevo rilievi e progettazione per una strada di 110 km in mezzo alla foresta, paludi, zanzare e serpenti. Vivevo prima in capanne e poi in container. Non mi avevano detto però che il terreno era tutto minato e perfino i tronchi degli alberi erano pieni di mine antiuomo, conseguenza della guerra coloniale prima, e tribale poi: 15 anni di conflitti. Ho fatto accordi col governo per avere l’aiuto degli sminatori; in 6-7 mesi hanno neutralizzato circa 6000 mine. Alla fine mi sono tenuto solo un soldato mandingo, Pedro, il migliore in assoluto, che si era specializzato prima a Cuba e poi in Urss. E i lavori sono proseguiti.

Quali erano i rapporti con la popolazione locale e gli aspetti di vita quotidiana?

Io ero in ottimi rapporti e senza di loro non era possibile fare niente. Contrattavo con i capi villaggio: loro mi fornivano papaje, manghi, banane, galline così piccole che divoravamo in un boccone. In cambio io davo loro un passaggio col mio pickup da una parte all’altra. C’erano le donne che lavavano nel fiume pieno di coccodrilli e non era inusuale trovare qualche mamba verde o vipera del Gabon sulla porta. Una volta al mese andavo allo Sheraton nella capitale per fare un bel bagno, mangiare e bere decentemente, con aria condizionata e relax.

E dopo la Guinea?

Sono tornato a casa: ho lavorato in Italia diversi anni girandola tutta. E poi di nuovo in Africa, Algeria. Là lavoravamo al porto di Jijel, all’autostrada dal nord al sud dell’Algeria per 140 km. e alla tratta ferroviaria di 160 km, tutte rotaie italiane da Livorno. Avevamo un campo base grande come uno dei nostri paese. In Algeria ho visto paesaggi e colori incredibili: laghetti smeraldo, montagne di sale, fattorie e vigneti con coltivazioni di peperoni. Eravamo poi a Mecheria, sulla catena del Grande Atlante a 1100 m verso il Marocco per un’altra ferrovia. Là c’è l’ultimo avamposto della Legione Straniera; ho un caro amico legionario, responsabile della sicurezza degli italiani all’estero. In Algeria rimangono tutti i segni del colonialismo francese; anche se le donne sono più emancipate che altrove, prevale l’integralismo. In Algeria mi ha fatto visita due volte anche mia moglie Antonietta. E qua finisce la mia storia in Africa, prima della pensione nel 2017.

Cos’è il ‘mal d’Africa’?

Natura e esseri umani ti mostrano il meglio e il peggio di sé in modo autentico, a volte brutale. Una natura strepitosa e crudele allo stesso tempo; rapporti umani che ti coinvolgono totalmente e ti fanno vivere profondamente sentimenti di condivisione. Vivere l’Africa assieme alle popolazioni locali è indescrivibile per il valore che ha. Come non restare indenni a un impatto così forte? L’Africa è qualcosa di primordiale che ti cattura, anche nelle situazioni più tragiche. Ho visto la bellezza di posti incredibili, il sorriso dei bambini nei villaggi, la gente trucidata in mezzo alla strada per la guerriglia. E queste immagini e sensazioni ti rimangono incollate addosso per sempre, ti senti vivo e partecipe del mondo, in tutti i sensi.

 

Redazione:

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  • Emilio è stato un mio carissimo amico d'avventura vissuta assieme a Bosaso (Somalia)
    Comunque tutto il suo racconto è stato frutto di una dura esperienza e nel suo racconto di vita in Africa mi fa rivivere gli anni che anch'io ho vissuto in diversi altri paesi Africani per ben 38 anni....

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