C’è chi lascia la propria terra in cerca di un sogno e non torna più, c’è chi invece sceglie di rientrare. Partenze volute, ritorni imprevisti, viaggi programmati, incontri casuali, esperienze e sperimentazioni, anche questoi è la rubrica “Cambio vita”
di Liliana Cerqueni
Primiero (Trento) – Una sintesi che non riesce a coprire tutte le vicende che riguardano la vita di movimento e ricerca del musicista primierotto Mario Bettega, 52 anni, la cui coprotagonista è soprattutto la musica.
Una passione che lo ha sempre accompagnato dall’Inghilterra agli Stati Uniti fino a casa, perché alla fine, come recita qualcuno nel film ‘Patch Adams’, “Per tutti la vita è come un ritorno a casa: commessi viaggiatori, segretari, minatori, agricoltori, mangiatori di spade, per tutti…tutti i cuori irrequieti del mondo cercano la strada di casa.”
Quando sei partito dal tuo paese per andare a Londra? Sono partito quando avevo 21 anni. Finito l’obbligo militare, non avendo voglia di proseguire gli studi con l’Università, ho scelto di assecondare la mia passione: la musica, la chitarra in particolare. L’opzione era studiare musica classica al Conservatorio ma non c’era possibilità di studiare musica moderna. In valle non esisteva la Scuola di Musica e gli studi in questo settore sembravano all’epoca impensabili. Mi sentivo attratto dall’Inghilterra e ho deciso di partire per Londra, curioso di incontrare una cultura del tutto nuova e stimolate; dovevano essere 10 giorni di full immersion, esplorazione e scoperta per poi rientrare ma nella realtà dei fatti sono tornato dopo 13 anni.
Sei sempre rimasto in quella città per tutto quel tempo? Non esattamente. In quell’arco di tempo ho lasciato Londra per andare negli Stati Uniti dove sono rimasto per tre anni, prima a New York e poi in California. Abitavo nell’area Upstate New York, quella porzione di territorio a nord dello stato newyorkese, in un paesino con una popolazione di quasi tutti italiani di terza e quarta generazione, figli e nipoti di quei nostri connazionali che hanno fatto la storia della nostra emigrazione.
Non lontano, c’è il Pokipsy Bridge, il famoso ponte ferroviario al quale sicuramente hanno lavorato i nostri emigranti, sulla linea che univa Washington a Boston, caduto in disuso dopo l’incendio del 1974. C’era un ostello, un saloon dove si tenevano concerti e perfino un “tabià” adibito a scuola di musica. Sono capitato là quasi per caso, nel 1988, tramite conoscenze, e parlando con un insegnante di musica mi sono subito reso conto di quanto costassero i corsi musicali e di come non fossero senz’altro alla mia portata, in scuole come il Barklee College of Music a Boston e il Trinity College, la prestigiosa scuola di musica contemporanea. Sono poi fortunatamente venuto in contatto con il Musician’s Institute di Los Angeles, California, con sede a Hollywood, dove i prezzi erano abbordabili.
Li ho contattati, ho superato un test di ammissione e con l’aiuto anche della mia famiglia, ho intrapreso un nuovo percorso formativo. Ho concluso il triennio previsto fino al diploma in tempi abbreviati perché ammesso a un livello già avanzato. Ho avuto modo di incontrare artisti di fama internazionale, nomi di grande spicco nel panorama musicale che ora si vanno ad ascoltare negli eventi di tutto il mondo, nell’ambito rock, jazz, funky, artisti che suonano al massimo livello.
Quali altri sviluppi attesi o inattesi? Ho preso il famoso ‘driveaway’, la macchina che le agenzie noleggiano per un tempo determinato e con quella ho attraversato l’America, approdando ancora una volta a New York. Sono rimasto ancora qualche mese nello stesso villaggio da cui ero partito per poi raggiungere l’Italia per un breve periodo, prima di ritornare a Londra.
Com’era la tua vita a Londra? All’inizio vivevo in un posto di 6 camere, in un edificio in precedenza occupato abusivamente dagli ‘squatters’; poi la struttura è stata regolarizzata dal punto di vista urbanistico e quando sono entrato io si poteva pagare un affitto bassissimo all’associazione che lo aveva in gestione. Questo mi permetteva di andare a suonare e agli altri inquilini di svolgere senza problemi le proprie attività: c’era chi si occupava di yoga e tai chi, chi produceva bigiotteria artigianale, un viavai di personaggi particolari, un piccolo universo di artisti e alternativi.
Dove suonavi e ti esibivi? All’inizio, prima della partenza per l’America, ero là con la mia chitarra acustica, a guardarmi attorno per cercare scuole di musica e lezioni. Ho cominciato a suonare nella metropolitana e questa è stata la mia prima esperienza londinese. Si guadagnava più a suonare nel metro che in altri modi; là suonavano molti bravi musicisti, davvero bravi, si stabilivano dei turni, era una cosa organizzata, c’era condivisione e una certa fratellanza tra noi.
Ogni tanto passava la polizia e ci faceva sgomberare perché l’attività non era del tutto legalizzata ma noi si ritornava passata l’emergenza. C’è stato un episodio incredibile che associo a quel periodo: suonavo con un musicista napoletano molto bravo e ci esibivamo regolarmente fino alle 20 alla stazione metropolitana di King’s Cross, un importante interscambio tra due linee metro. Un giorno come sempre arrivammo là ma per me non era come le altre volte. Ero inquieto e provavo l’impulso di andarmene, nonostante fosse un buon posto in cui suonare e raccogliessimo davvero tanti soldi. Una cosa inspiegabile.
Ce ne andammo in un altro posto e in un altro ancora, ma non riuscivamo a guadagnare nulla. Decidemmo di tornare a King’s Cross: la stazione era avvolta da un violento incendio, il cui bilancio fu di 32 morti e numerosi feriti. Il fuoco era partito da una scala mobile con componenti in legno e le successive indagini appurarono che fosse partito da un fiammifero acceso gettato all’interno degli ingranaggi, divampato in breve, con conseguenze drammatiche. Gente intrappolata, senza scampo e possibilità di fuga nell’ora di punta. Un disastro. Era il novembre del 1987.
Una volta tornato dagli Stati Uniti come hai ripreso la tua vita in Inghilterra? Mi sono subito attivato per suonare nei locali: ero impegnato in un duo di chitarre nel centro di Londra e ad Hampstead, in un locale, due volte a settimana. Poi ho cominciato a suonare in un gruppo reggae nei club afro-giamaicani dove ero l’unico bianco… C’era in particolare un posto che si chiamava Pink Pussy Cat, già il nome è un programma, dove arrivavano i vecchietti giamaicani per ascoltare musica. Un giorno uno di loro arrivò con un barattolo di vernice nera e lo appoggiò sul mio amplificatore: non occorrono tante parole per spiegare il chiaro invito a spalmarmelo sulla faccia!
Comunque gente simpatica e amichevole. Tornato dall’America, ero rimasto anche senza casa e dovendo affrontare affitti alti, mi ingegnai a fare il decoratore per poter far fronte a tutte le spese. E’ sempre stato il mio lavoro di ripiego, il mio piano B. Con un amico, andavamo a lavorare per miliardari come Alessandra di Montezemolo, il Conte Maffei ed altri, che ci consegnavano le chiavi di casa e pagavano lautamente per la totale fiducia che ci accordavano. Questo lavoro mi permetteva di lavorare tre mesi e poi concentrarmi esclusivamente sulla musica. A Londra era ed è dura vivere di sola musica.
Come nasce la decisione di tornare in Italia? A Londra stavo benissimo, avevo ciò che volevo, avevo perfino trovato un appartamento con vista panoramica che mi ricordava una baita, tetto spiovente, rustico, con travi a vista. Nel frattempo però era morto mio padre. Decisi di tornare al paese solo per qualche mese. Tra le novità che mi attendevano in valle c’era la Scuola di Musica appena avviata. Inviai quasi per scherzo il mio curriculum, senza troppe aspettative e ragionamenti, convinto che tanto sarei tornato a Londra a continuare la mia vita da musicista, dando anche lezioni di chitarra acustica.
Ma quando il caso si mette al lavoro, allora succede quello che probabilmente deve succedere. Proprio il caso ha voluto che incontrassi Paolo Scalet, direttore della Scuola Musicale, il quale stava tentando da un po’ di contattarmi, non riuscendo a rintracciarmi in nessun modo. Da quell’incontro la mia vita è cambiata: sono partito come insegnante di un solo studente ad ottobre, per ritrovarmi con 12 ragazzi a febbraio e non sono mai riuscito ad abbandonare questa nuova dimensione perchè la scuola, le lezioni, i ragazzi mi hanno completamente coinvolto e conquistato.
Non ho nessun rammarico ma paradossalmente rimpiango gli spazi di individualità che Londra mi assicurava: entrando in un bar, ad esempio, potevo starmene da solo, immerso nei miei pensieri, per i fatti miei senza dover entrare in contatto necessariamente con qualcuno. Qua non esiste solitudine ma riconosco anche che questo da un lato è apprezzabile.
Sei tornato a Londra? Come sono cambiati gli ambienti che frequentavi? Sì, ci sono tornato. C’è sempre tanta musica nei locali e in altri spazi perché fare musica rimane sempre più facile che qua dove ci sono molti più vincoli burocratici: permessi, SIAE, aspetti organizzativi, condizioni da rispettare ancora prima dell’evento stesso. Qua il musicista viene sempre considerato un ‘libero pensatore’ al quale chiedere immediatamente: “Ma che lavoro fai?”
Mentre in Inghilterra il bravo musicista è una figura professionale significativa a la musica è una delle industrie più floride e redditizie. Un altro mondo. Ho notato cambiamenti riguardo il traffico in città, molto più caotico, intenso e regolato attraverso zone di accesso a pagamento. Anche molti pub sono cambiati: un restyling che forse ha fatto perdere loro l’originalità e il carattere di una volta. Londra rimane comunque una città attiva e affascinante.
Il tuo rapporto attuale con la musica, resta sempre parte inscindibile di te? Sì, quello che faccio in campo musicale lo affronto sempre con grande passione: concerti, lezioni presso la Scuola Musicale di Primiero e la Scuola di Musica di Feltre. Ai miei tempi non c’erano queste opportunità ed è per questo che metto tutto l’impegno possibile per seguire i ragazzi che iniziano questo percorso. Sono proprio contento di avere il mio giro di studenti e lavorare in una scuola.
Il genere in cui ti senti completamente a tuo agio? Sono un po’ indeciso tra chitarra acustica e musica per chitarra acustica. Io sono partito con la chitarra acustica che nella Primiero di un tempo, era all’avanguardia grazie al gruppo locale dei Blueberry Blossom che organizzavano concerti di chitarra acustica e successivamente hanno ideato il bellissimo Festival di musica irlandese a Primiero.
Molti grossi nomi della musica (Maurizio Angeletti, Robbie Basho, grande nome americano) sono venuti in valle per suonare chitarra acustica che era molto apprezzata e che, purtroppo, è stata poi accantonata. Ricordo ancora un concerto a Pedavena in cui suonava anche Jimmy Trotter e io ragazzino sotto il palco, estasiato ad ascoltarlo. E’ un genere che mi ha sempre catturato e che continuo a studiare. Mi piace anche il jazz, il blues; non sono mai stato un rockettaro.
Volendo suggerire qualcosa a Primiero in campo musicale, quali eventi proporresti? Abbiamo già avuto in passato esperienze con il Festivalbar ed oggi non manca la classica con la Music Academy Orchestra di New York.
Un festival rappresenta sempre un impegno enorme a livello organizzativo ed economico. L’esperienza degli Ottoni Festival, che attirava nomi di spicco, ha dimostrato questo. A volte la situazione diventa insostenibile. A me piacerebbe dare il via a qualche evento di chitarra acustica più modesto di un festival: chiamare qualche nome forte nel nostro panorama splendido, dove esistono belle strutture per l’accoglienza degli ospiti e dei concerti. Non mancherebbe nulla. Si potrebbero organizzare nel contempo seminari e workshop residenziali di chitarra acustica aperti all’esterno. Ospitando nomi come Tommy Emmanuel si riempirebbe senza problemi l’Auditorium anche per due serate. In Italia abbiamo Franco Morone che partecipa a queste attività seminariali.
Quale consiglio ti sentiresti di dare ai tuoi giovani allievi? Di tenere sempre presente il famoso piano B: non sempre di musica si può vivere ed è necessario stare con i piedi per terra, non perdere mai il senso della realtà. Io mi ritengo assolutamente fortunato di poter lavorare in un scuola di musica. Fare il musicista o interessarsi esclusivamente alla musica è un azzardo perché la bravura da sola non permette di sfondare. Non nella maggioranza dei casi, perché ci sono molti altri aspetti che concorrono, come la capacità di promuoversi e spendersi nel mercato musicale, essere manager di se stessi creando una propria immagine di marketing.
Ecco a cosa serve il piano B: trovare e mantenere una propria autonomia economica, aldilà della musica. Ho preparato un mio allievo di Feltre per l’ingresso al Centro Professionale Musica di Franco Mussida (Premiata Forneria Marconi) a Milano e questo ragazzo, accanto agli studi continua a lavorare come pizzaiolo, commesso ma non solo, per avere una garanzia economica e concorrere alle spese non indifferenti che gli studi impongono.
Mario Bettega alla chitarra – ‘En troi de nisàr’, venerdi 20 luglio 2012 a Imèr nel Primiero, con Licia Bettega e il coro Sass Maor. Riprese video di Paolo Loss e Gabriella Bettega
Festivalbar 1983 a Primiero, una chicca di Radio Primiero – Interviste di Walter Taufer, Monica Secco a Miguel Bosè, Claudio Cecchetto, Enrico Ruggeri, Edoardo De Angelis ma non solo…