Pochi giorni fa La Repubblica, intervistando l’artista in occasione della mostra bolzanina, l’ha definita "un manifesto lirico e intimo sul fenomeno del narcotraffico e sugli assassini-sparizioni che aleggiano su Ciudad Juarez". Il giornale cita come esempio due muri, infestati di fori, reliquie di pallottole sparate durante le esecuzioni.
Per Margolles, che nel 2009 aveva firmato il padiglione messicano alla Biennale, "l’arte è una fine riflessione sulla crudezza della realtà messicana, con lucidità caustica".
Ragaglia ricorda in merito "la performance ‘Balkan Baroque’ di Marina Abramovich, Leone d’Oro alla Biennale di Venezia 1997, in cui la Abramovich lavava scheletri su una pila di ossa animali come atto di purificazione per la guerra dei Balcani. O l’artista Ai Weiwei che ha portato 1001 cinesi a Documenta 12 a Kassel".
Il lavoro di Teresa Margolles non si esaurisce con l’opera esposta, "ma è un processo che lascia segni di speranza", sottolinea la direttrice. "Dar voce al dolore – aggiunge – è quello che Teresa Margolles fa ogni giorno con il suo lavoro, che vede il coinvolgimento della collettività. Sono infatti gli stessi familiari delle vittime a cercare l’artista, a raccontarle le storie, a portarle le testimonianze delle morti".