Non sempre, però, va come avevamo immaginato. Non sempre funziona a meraviglia. Di conseguenza siamo convinti che non è vero che l’amore, potente com’è, dona felicità e pace duratura. L’esperienza ce lo dimostra.
In realtà ciò che ci dimostra l’esperienza è un’altra cosa: giudizio, difesa, frustrazione, rabbia, paura. Ciò che non è amore è tutto questo ed è una ferita che taglia fuori l’amore per cui nelle relazioni umane non riusciamo a nutrircene. Non accade solo con il partner, ma anche tra genitori e figli, parenti, amici.
C’è soluzione? Sì che c’è. Partire da sé. Riconoscere che cosa ci fa soffrire del comportamento dell’altro e perché. Sono dinamiche che hanno origine nei condizionamenti dell’infanzia e generano un dolore che è come quello di una ferita non curata. Comprenderle e diventarne responsabili significa essere adulti. Sta in questo la nostra forza e per farlo ci vuole coraggio, cioè cuore, (l’origine della parola riconduce al latino cor), e pazienza con se stessi.
Ognuno può prendersi cura della propria ferita, non di quella dell’altro anche se sono simili perché in fondo la ferita è una e universale: non sentirsi abbastanza degni di amore.
Un sentimento che arriva da lontano, trasmesso di generazione in generazione. Come se l’amore si debba conquistarlo mentre di fatto è sempre disponibile dentro di noi come il sole all’esterno. È “l’amore di essere”.
Se vi interessa approfondire, John Welwood spiega in modo molto chiaro come agisce la ferita interiore, come prendersene cura e fare esperienza dell’amore naturalmente presente dentro di noi. Vale la pena leggere e rileggere il suo “Amore perfetto, relazioni imperfette”, Feltrinelli, 2014. Da abbinare una tisana di melissa, finocchio e liquirizia.