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Un ponte tra Italia ed Israele, Tania Coen Uzzielli: “Ho lasciato un’Acropoli per vivere in un’Agorà”

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Con questa metafora Tania Coen Uzzielli riassume la sua carriera professionale in Israele, dapprima in posizioni apicali all’“Israel Museum” di Gerusalemme e dal 2019 alla guida del “Tel Aviv Museum of Art”

[ The Tel Aviv Museum of Art (TAMA) – © courtesy of Preston Scott Cohen Inc. ]

di GianAngelo Pistoia

NordEst – Poliglotta, nata in Italia, ma da trent’anni vive e lavora in Israele. Dal primo gennaio 2019 dirige uno dei più importanti musei israeliani, il Tel Aviv Museum of Art (TAMA). Forse l’avrete riconosciuta: sto parlando di Tania Coen-Uzzielli, donna affascinante, pragmatica e affabile. Per la rubrica sui “musei e mostre” che curo sulla “VocedelNordEst” le ho chiesto un’intervista. Così mi ha risposto: «accetto con piacere l’intervista, per ampliare la visibilità del TAMA nei media italiani. Sarà però un po’ complesso coordinarla considerato che sono attualmente a Parigi e spesso in viaggio».

[ Tania Coen-Uzzielli – © Eli Posner ]
In attesa di poterla incontrare in Italia, vi proponiamo ampli stralci di interventi che Tania Coen-Uzzielli ha rilasciato recentemente a Cecilia Scaldaferri, Fiammetta Martegani e a Roberto Cohen per AGI e per le riviste ebraiche “JoiMag.it” e “Riflessi Menorah”.

Cominciamo dall’inizio, prima di arrivare al TAMA, qual è stato il percorso formativo in Italia che è poi proseguito in Israele?
«Tutto è cominciato dopo il liceo classico, con quello che doveva essere solamente un anno di “hachshara” – ovvero di “formazione” – presso il Kibbutz Ein Hantziv, a Beit Shean. Alla fine di questa esperienza ho deciso di continuare i miei studi in Israele, presso l’Università di Gerusalemme. Inizialmente volevo studiare biologia e archeologia, ma siccome i due campus erano separati e seguire entrambe i corsi sarebbe stato incompatibile, alla fine ho scelto, oltre ad archeologia, storia dell’arte, anche per la mia passione per questa materia coltivata dai tempi del liceo, grazie ad un’eccezionale insegnante che ha sicuramente lasciato un segno.

Dopo aver proseguito la ricerca accademica in arte e archeologia – continuando a lavorare in università – mi sono ritrovata per alcuni anni ad insegnare in California, dove ho anche lavorato per il consolato israeliano di San Francisco, come attaché agli affari culturali. Questo ha aperto ulteriormente i miei orizzonti al di fuori dell’accademia mettendomi a contatto diretto con un pubblico di potenziali fruitori culturali. È stato sicuramente un momento di importante formazione, assieme al periodo trascorso a Torino presso l’“Archivio delle Tradizioni e del Costume Ebraici Benvenuto e Alessandro Terracini”: una breve ma intensa esperienza attraverso una piccola mostra sul matrimonio ebraico. È in questi anni che è maturata in me l’idea di costruire un “ponte” attraverso la cultura, perché non rimanesse arginata nelle torri d’avorio dell’accademia, ma potesse raggiungere un pubblico più largo. Forse questo è stato lo stimolo che mi ha fatto lasciare l’accademia per entrare, nel 2000, all’Israel Museum di Gerusalemme, dove ho lavorato per quasi vent’anni».

Come si possono riassumere questi 20 anni all’Israel Museum e quali sono stati i momenti cruciali di questa esperienza?
«È un vero e proprio museo del “sapere”, quasi enciclopedico, dove la mia specializzazione in arte ebraica mi ha consentito di realizzare uno dei progetti dei quali vado più fiera: la “Synagogues Route” – “il viale delle sinagoghe” – che permette al visitatore l’accesso a quattro sinagoghe originali (provenienti da Germania, Italia, India e dalle Americhe) per mostrare, attraverso la loro architettura, come l’ebraismo abbia assorbito l’influenza estetica delle culture nelle quali si è sviluppato, pur mantenendo al tempo stesso le sue radici, che si svelano attraverso questi quattro templi, riuniti uno accanto all’altro, in questo luogo, unico al mondo, di storia, arte e cultura.

[ The Tzedek ve-Shalom Synagogue, 1736, Paramaribo, Suriname – © courtesy of the Israel Museum ]
Altro “turning point” nel mio percorso è stata senz’altro la mostra “A Brief History of Humankind”, basata sull’omonimo manoscritto di Yuval Noah Harari. La lettura di questa breve storia del genere umano – in cui l’autore ci accompagna passando continuamente dal passato al presente al futuro, con momenti di grande ironia – ha acceso la mia fantasia: la collezione enciclopedica dell’Israel Museum poteva diventare un’illustrazione del libro – in un percorso tra preistoria, storia delle religioni e del progresso scientifico, fino ai giorni nostri – grazie ai manufatti archeologici, le sculture e le opere di arte contemporanea del Museo che, collocati uno accanto all’altro attraverso una specifica contestualizzazione, riecheggiavano il percorso narrato nell’opera di Harari.

[ The Israel Museum in Jerusalem – © Eli Posner / courtesy of the Israel Museum ]
Ma la mia scuola più grande è stata sicuramente affiancare James Snyder come “Deputy Director for Curatorial Affairs”, una vera formazione di management museale che non si può studiare in nessun altro contesto se non sul luogo: la visione di insieme, lo sguardo alla programmazione, la strategia di lungo periodo e l’attenzione alla crescita della collezione. Il tutto, parallelamente allo sviluppo dei programmi educativi, del marketing e di tutto il resto. Questo è quello che mi ha consentito di fare il grande passo, nel 2019, quando mi hanno offerto di dirigere il Tel Aviv Museum of Art».

Quando si parla di “made in Italy” lo si associa quasi sempre ad un prodotto e raramente ad uno “state of mind”, come è nel caso della curatela museale. Cosa, avendo un background legato all’Italia, ha contributo e influenzato il suo modo di essere prima curatore e poi direttore di un museo, all’estero e, nello specifico in Israele?
«Sicuramente il fatto di essere italiana, con tutto il patrimonio artistico che caratterizza il nostro Paese, ha avuto un ruolo cruciale nella mia carriera e, prima ancora, nella mia formazione. Mio nonno, prima che decidessi di iscrivermi al liceo classico, mi disse che il mondo si divideva in due categorie: tra chi ha studiato e chi non ha studiato il greco antico.

Solo dopo ho capito che quello a cui si riferiva era l’apertura mentale che ci veniva richiesta, quotidianamente, a partire dall’atto creativo di traduzione, ed interpretazione, durante le versioni di greco. La mia esperienza liceale è stata incredibilmente formativa, sia sul piano accademico che sul piano umano, e questo, in parte, mi lega e mi legherà per sempre all’Italia, che in questo senso è un vero e proprio “state of mind”, come quello dell’essere italiana, e prima ancora romana. Forse questo mi ha anche consentito di trovarmi in risonanza con una città come Gerusalemme, per via della mia passione per l’arte in quanto stratificazione di periodi storici, in cui ogni pietra ha un suo significato. In questo senso Roma e Gerusalemme sono due città che permettono di ricongiungere il passato con il presente, attraverso un processo di tipo ermeneutico … Ho un’identità doppia inscindibile. Ho studiato archeologia e storia dell’arte all’università di Gerusalemme, città dove tuttora vivo. Una dicotomia che sento, perché mantengo sempre un po’ la prospettiva dell’outsider: in Israele come italiana, in Italia come israeliana, a Tel Aviv come gerolosomitana. Sono sempre “altro” rispetto al resto, il che mi dà una prospettiva un po’ diversa. Ho lavorato vent’anni al museo di Gerusalemme, ricoprendo vari ruoli, da assistente curatore fino a vice direttore per i contenuti.

[ The Tel Aviv Museum of Art (TAMA) – © Elad Saring / courtesy of the Tel Aviv Museum of Art ]
E nel 2019 sono arrivata qui, al Tel Aviv Museum of Art: questo mi sembra quasi un paradiso, di aver vinto un terno al lotto. Il TAMA è un paradiso che richiede però moltissimo lavoro. É molto difficile gestire un’istituzione culturale in Israele: primo, perché non sono abbastanza sovvenzionate dal governo. Dal ministero della Cultura ricevo il 3% del mio budget e dalla municipalità di Tel Aviv, che comunque è una delle più ricche al mondo, ricevo il 30%, che è molto. Riesco ad arrivare a un terzo del budget, un altro terzo proviene da fundraising e sponsorizzazioni mentre il restante sono entrate dalla biglietteria e altre attività. Quindi da un punto di vista amministrativo è una bella sfida. Ma “scartoffie” a parte, c’è un intenso lavoro programmatico.

La missione di questa istituzione è di essere in qualche modo un ponte. Essere il luogo dove gli artisti locali vogliono presentare le loro opere – a me non piace chiamarla arte israeliana, ma l’arte di Israele, in un’accezione più vasta – e allo stesso tempo portare in Israele l’arte contemporanea internazionale. Il TAMA è parte integrante della vita e della cultura della metropoli di Tel Aviv e il mandato del Museo è appunto quello di preservare e presentare arte moderna e contemporanea locale ed internazionale».

Lei spesso definisce il museo di Gerusalemme come un’acropoli ed il museo di Tel Aviv come un’agorà. Perché?
«Se dovessi paragonare l’Israel Museum con il TAMA li definirei come i due centri che caratterizzano la polis greca. Il museo di Gerusalemme è un’acropoli, appare“super partes”, esprime concetti e valori universali attraverso l’archeologia e la storia dei popoli che si sono susseguiti in questa terra. È realizzato in cima ad una delle colline più alte e per entrarci devi salire molto, è come se fosse un posto “sacro”. È la situazione geo-spaziale che gli da questa caratteristica. È una posizione che rappresenta anche l’identità del Museo e la sua funzione. Racconta la storia con la “S” maiuscola, la storia universale dagli albori a oggi.

[ The Israel Museum in Jerusalem – © courtesy of AFIM (American Friends of the Israel Museum) ]
Il TAMA, invece, è un’agorà integrata nella compagine urbana, una piazza culturale che interagisce con le istituzioni circostanti: dalla biblioteca municipale, al teatro, all’opera. A due passi dal tribunale, dall’ospedale, dai negozi, dai bar e ristoranti. Come un’agorà, è il luogo di impulso della città: il luogo dove le cose succedono, una piattaforma interdisciplinare dove nei nostri spazi, insieme alle mostre, si può andare anche al cinema, assistere a spettacoli teatrali e a concerti di musica classica.

Il TAMA riflette e risponde agli impulsi che la società gli trasmette, creando mostre di vario genere che rispecchiano il contemporaneo come modo di interpretare la realtà. Insomma, ha tutte le caratteristiche per integrarsi perfettamente con la società civile che lo circonda. Ritengo che un museo non debba essere distaccato da quello che gli succede intorno».

[ The Tel Aviv Museum of Art – © Manuel Schneider (CC-BY-3.0) ]
Il ruolo del curatore e di direttore di un museo, è cruciale nel “mediare” tra arte, artista e pubblico. In particolare, quando si tratta di collocare le opere all’interno di un involucro museale. Quali sono le caratteristiche del TAMA come “location site specific”?
Lo spazio museale è stato spesso definito come una “wihte box” e per questo il lavoro tra artista, designer e curatore è fondamentale per creare l’esperienza del visitatore, prima ancora che entri al museo: si dice che l’esperienza di una mostra comincia con il comprare il biglietto, a partire dall’accesso al sito internet. Tutto questo fa parte di un processo di “mediazione”: più l’esperienza è mediata più facile è l’accesso all’opera d’arte.

Pur senza mai cadere troppo nell’approccio didattico, per lasciare al visitatore il libero arbitrio di trovare la sua strada seguendo delle traiettorie – attraverso un gioco di equilibri tra artista, curatore e direttore – in modo che si senta accolto in un contesto a misura d’uomo, e non in una cattedrale gotica. Poiché l’esperienza stessa è, in fondo, il fulcro di ogni mostra.

[ Installations view by Yayoi Kusama – © Yayoi Kusama / ph. Elad Saring / courtesy of the TAMA ]
Credo che il nostro pubblico apprezzi ciò, come si evince anche dalla mostra appena conclusa di Yayoi Kusama. É un’artista giapponese molto gettonata, abbiamo avuto 620 mila visitatori, che per il nostro museo è un numero eccezionale. Eravamo a fine della pandemia, ancora in mezzo lockdown, con le frontiere chiuse, quindi la maggior parte del pubblico era locale. Contemporaneamente, siamo anche molto attenti a collaborazioni con moltissimi musei nel mondo, come la pinacoteca di Monaco di Baviera, il Centro Pompidou, la Fondazione Beyeler di Basilea, solo per citarne alcuni. La “bibbia del settore”, la rivista online e cartacea “The Art Newspaper” ci ha inserito tra i primi 50 musei al mondo dal punto di vista di visitatori, collezioni e mostre.

[ The Tel Aviv Museum of Art – © courtesy of Preston Scott Cohen Inc. – Amit Geron / TAMA ]
Ne facciamo venti all’anno, abbiamo 15 mila mq di superficie per le mostre temporanee, più altri 8 mila per le esposizioni permanenti divise in due sezioni, la prima è quella moderna e contemporanea, con impressionisti e post impressionisti. La seconda è una collezione di arte israeliana che di recente la curatrice ha reinterpretato, prendendo le distanze dall’associazione che c’è sempre stata tra l’arte e la storia del Paese, raccontandola invece attraverso i quattro elementi fondamentali: fuoco, aria, acqua e terra.

Sono stati così inseriti tutti quegli artisti che durante gli anni erano rimasti periferici, come donne, artisti palestinesi, ebrei di origine orientale. Il risultato è una mostra un po’ meno politico-sociale, ma che invece recupera l’arte per l’arte e racconta tante altre storie. Anche perché, parlando di terra, tutte le tensioni che ci sono sul territorio ritornano evidenti ma reinterpretate. É il nostro cavallo di battaglia locale ma può attirare anche l’attenzione del turista».

A proposito di turisti, il TAMA riesce ad intercettare tutti quelli che visitano Tel Aviv?
«Non tutti i turisti che vengono a Tel Aviv visitano il TAMA. I miei “competitors” naturali sono il mare e la locale offerta culinaria. Appunto per questo stiamo lavorando con gli albergatori e gli aeroporti per attrare i turisti ed avvicinarli al museo, proponendo loro laboratori, attività varie e progetti multitasking che figurino tra le attrattive turistiche della nostra città. Negli ultimi vent’anni Tel Aviv, dal punto di vista culturale, è letteralmente esplosa anche a discapito di Gerusalemme che, invece, si è impoverita.

Credo che la ricchezza delle proposte culturali offerte sia pari solo a New York. Basti pensare che nella sola Tel Aviv ci sono ben sette teatri, 150 gallerie d’arte per non parlare degli auditorium e delle sale concerti. L’obiettivo per il TAMA è diventare tappa obbligata del turismo. Gli ospiti stranieri dovrebbero soffermarsi sullo stile architettonico degli edifici che circondano il museo e che vanno dal Bauhaus ai grattacieli di ultima generazione.

[ Artworks in Tel Aviv Museum of Art – © courtesy of the Tel Aviv Museum of Art ]
Poi non dovrebbero perdere la collezione Mayer è quella di arte moderna, dall’Impressionismo a Picasso. Al TAMA ci sono quadri di Renoir, Pissarro, Monet, Utrillo, Gottlieb, Cezanne, Gauguin, Van Gogh per non parlare di Chagall, Mirò, Braque, Pollock e Burri. Un must è la sezione dell’arte israeliana che rispecchia l’evoluzione della società con le sue tensioni sociali, politiche e culturali. Infine c’è sempre una mostra temporanea di grande livello che vale la pena visitare come novità esclusiva del momento.

L’altro pubblico da acchiappare sono i giovani: il museo, come piattaforma interdisciplinare, ospita due teatri con programmi di musica di tutti i generi che, insieme a un teatro off, richiamano un pubblico più particolare, tra cui parecchi giovani. Però ancora non li abbiamo catturati su ampia scala. Tentativi, di successo, sono stati messi in campo, un esempio è stata la mostra di Yayoi Kusama così come quella dell’artista pop Jeff Koons. La strada è stata intrapresa ma la domanda, in generale per tutti i musei, resta quella di come riuscire a “fidelizzare” i visitatori».

Quest’anno ricorre il 90° anniversario della fondazione del “Tel Aviv Museum of Art”. Me ne vuol parlare?
«Nel 2022 in Museo compie 90 anni, e uno dei nostri scopi precipui è portare avanti il lavoro iniziato da Meir Dizengoff, primo sindaco della città e uomo visionario che fin da subito capì quanto fosse cruciale creare, parallelamente alle istituzioni politiche, delle istituzioni culturali, tanto che nel suo testamento chiama il TAMA “figlioccio” chiedendo che, dopo la sua morte, la città se ne prenda cura al posto suo. Inoltre nel 1932 – quando lo Stato di Israele era ancora un’utopia – sul suo diario scrisse che non era possibile fondare la prima città ebraica solo sulla tecnologia, ma bisognava assolutamente immaginare anche una capitale della cultura.

[ Dizengoff House – Meir Dizengoff – © courtesy of the Tel Aviv Museum of Art – Archive ]
Un impegno, il suo, in prima persona, tanto da spingerlo, all’indomani della morte della moglie, a mettere a disposizione due piani della sua casa per ospitarlo. E il luogo divenne centrale nella storia d’Israele: la dichiarazione d’indipendenza nel 1948 venne pronunciata proprio dalle sale del museo di Tel Aviv. Ne vado molto fiera, che questo Stato sia nato in un’istituzione culturale.

[ Declaration of Independence, 1948 – © Rudi Weissenstein / courtesy of the Tel Aviv Museum of Art – Archive ]
Negli anni Cinquanta, con la crescita delle collezioni, si decise di costruire un altro padiglione, vicino al teatro Habima, inaugurato nel 1959 con l’intenzione di innalzarne altri. Ma lo spazio non era sufficiente e nel 1971 sorse l’edificio attuale, in una zona diversa della città. Negli anni 2000, poi, l’allora direttore volle una “casa” ad hoc per l’arte israeliana e così fu aggiunta una nuova ala, collegata al corpo originale. Ora il TAMA è uno spazioso edificio in cemento armato unito a un “gemello” dalle complesse forme geometriche ed attorniato da due “giardini delle sculture”: il “Lola Beer Ebner Sculpture Garden”, un’oasi urbana di pace e tranquillità ombreggiata da alberi di eucalipto e il “Nata’s Garden” una sorta di piazza urbana incastonata tra gli edifici museali.

[ Artworks in Gardens of TAMA– © Elad Saring / courtesy of the TAMA – Talmoryair (CC BY 3.0) ]
Nel 2022 è arrivato il “momento della maturità”, che porta con sé una riflessione su cosa sono stati questi novant’anni e dove siamo arrivati. Così, dopo la giapponese Yayoi Kusama, in programma c’è una mostra su “NFT” (Non-Fungible Tokens) con virtual rendering, intelligenza artificiale, avatar, ma anche un’enorme installazione di un’artista israeliana con 450 uccelli fatti di cera, come metafora della popolazione e allo stesso tempo di un certo virtuosismo dell’arte low-tech. Una festa che va a toccare tutti i campi dell’arte, a 360 gradi, per capire come questo museo si sia evoluto in questi novant’anni.

Il 2022 è quindi per noi una straordinaria occasione per ribadire quali sono i principi su cui si fonda il Museo. Perciò quest’anno daremo grande importanza all’arte israeliana e al padiglione di arte moderna che, grazie ad un’importante donazione, verrà ristrutturato e interamente riallestito. Ma i progetti non finiscono mai. Stiamo proprio ora attivando una collaborazione con il Guggenheim Museum di New York e sempre di più, oltre a dedicare un’attenzione speciale all’arte locale, rivolgeremo i nostri sforzi per creare sinergie virtuose con altre istituzioni internazionali, come è vocazione del TAMA».

Per ulteriori informazioni: il sito web del museo www.tamuseum.org.il/en/

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